Paolo Profaizer dipinge case, architetture. E spesso, in mezzo alle costruzioni, davanti ad esse, scarniti alberi o fragili scale. E poi, dipinge la luce. Luce diffusa, densa, gelatinosa, che sommerge ed ingloba le cose ed i paesaggi. O anche luce che incide come la concentrazione di un raggio, oppure che esplode in una miriade di infinitesimi bagliori e di serpentine scie. Profaizer dipinge fascinazioni. E bisogna intendersi. Nulla di artificioso o di astrusamente concettuale, nulla che non sia al contrario spietatamente attaccato alla laboriosa e terrena pratica del vivere, entra a far parte di queste visioni e seduzioni. Allo sguardo si dischiude un luogo, uno spazio di immagini, il cui segreto e mistero è stare appena al di là di ogni “reale percezione del reale”. È insomma un’irrealtà di misura, quasi uno scostamento impercettibile da ciò che di esistente umanamente ci tocca. Sono contesti semplicemente alterati da una poetica tutta soggettiva, reinventati nell’intreccio di ideazioni simboliche che filtrano ed ammorbidiscono la nettezza della realtà. Questa alterazione pian piano prende piede, diventa lettura e narrazione, correlazione fra esperienza del mondo e sua riformulazione artistica, equilibrio di senso e psiche, legame e tensione fantastica delle visioni concrete con la coscienza personale fatta di memorie, consapevolezze, sentimenti. Aleggia insomma quello sforzo insieme rappresentativo e interpretativo che si rifà dichiaratamente, se non totalmente nei modi espressivi sicuramente nell’organizzazione ideale, al “realismo magico” degli anni Venti, quello di Carrà, alla metafisica morbida di Casorati, a quella costruttiva di Sironi. E che porta Profaizer a studiare con rigore l’armonia di forme e valori, il modo di condensare rappresentazione e messaggio in una corrispondenza costruttiva e costruttrice, che amalgama strati fisici e livelli di lettura e che si accresce come una forma composita e vitale.
Le architetture, dunque, non sono solamente e semplicemente motivo di ispirazione, o mera descrizione di ambiti narrativi. Si fanno in primo luogo metafora di equilibrio e consistenza, emblema di volontà edificatrice, segno di una necessità all’elevazione, all’articolazione e complessità. Sono costruzioni sovradimensionate, ingigantite fino a deformare lo spazio pittorico e le prospettive, incombenti e sovrastanti, crescenze che invadono lo sguardo, superfici espanse e vertiginose. Ed al tempo stesso, non ci si trova in nessun caso di fronte a puri ed inerti blocchi geometrici. Questi edifici sembrano fatti di materia organica, sviluppati come tumescenze vegetanti, rigogliosi di morbide prominenze, svettanti di corporee guglie. È come se tutto questo mondo costruito fosse in realtà conformazione, mammellosità, escrescenza spugnosa, corpo cavernoso di un unico, immenso e multiforme organismo vivente. E come corpo che vive, ognuno di questi edifici ha una propria leggerezza e fragilità, sia nelle forme che negli spessori. Non si avverte solidità di fondamenta, robustezza e rigidità di struttura, ma quasi pare che tutto ondeggi in una fluidità di atmosfera acquosa, plasticità di forme primordiali in un brodo primordiale. Quest’architettura è un sogno o una rimembranza (come sembra richiamare il tratto minimale, a volte infantile), un primitivo riscoprire gli ambiti nativi di un’umanità invece agglomerata nel susseguirsi ordinato e simmetrico di piccole finestre che forano le facciate, nelle minime aperture geometriche, nelle pieghe flosce che aprono varchi a nessuna luce. Ed è immagine di interrelazione e raccordo fra le parti, che non vivono se non nel collegamento organico e funzionale con il tutto, se non come prodotto di un medesimo humus nutritivo, di uno stesso contesto e processo vitale.
L’unità di composizione e di impianto è un principio dunque rigoroso, che lega idealmente e fattivamente tutti i soggetti rappresentati. La solitudine dell’albero e della scala fra le esorbitanze turrite di Profaizer non è avulsione dal contesto, giustapposizione di un elemento agli altri, rottura nell’omogeneità delle forme. Perché quest’albero minimo, singolo, puntuto, e la scala esile, instabile, inadeguata alle elevazioni della parete su cui poggia, delineano entrambi il necessario complemento e riscontro proprio alla multiformità degli ambiti circostanti. Proprio l’isolamento, a volte la marginalità di questi elementi, ne rendono ancor più evidente la centralità, cui sembra adeguarsi ed indirizzarsi tutta la composizione. È come la rivelazione e l’esplicazione di un principio di polarità vitale, quel legame attrattivo di opposizioni, quella duplicità di natura da cui origina ogni nuova trasformazione. È come la constatazione di un processo generativo, che avvia dall’incontro e fusione di alterità, quasi fosse una sessualità metaforizzata. Ed è evidente, e di primo acchito vien da pensare, che nelle forme vulvari, uterine, falliche che riempiono questi quadri, nella relazione fra la procace rotondità delle architetture e l’ergersi penetrante dell’albero o della scala, ci sia un preciso richiamo alla sessualità e sensualità, al rapporto di maschio e femmina inteso come principio di natura, fondamento di sviluppo ed evoluzione. Ma è altrettanto evidente che a sua volta questo dualismo si fa ancora simbolo di ogni altra umana relazione vivificatrice e procreatrice, come nel corrispondersi di materia e spirito, o di compiuto e in divenire, o di istinto e raziocinio, o di visione intima e sguardo universale. L’albero allora, ma similmente può dirsi per la scala, è anche il germoglio del soggetto che cresce non più che circondato ed osservato dall’ambiente che lo ha generato; è il fattore di diversità ed avvicendamento che amplifica estende e modifica le ormai stabili strutturazioni dell’essere; è la coscienza dell’individualità esile che si confronta con la vastità della comunità, la promessa ed il destino di questa individualità a metter su fronde e ramificazioni, chiome ed altezze.
In questo procedimento di reciprocità costante, il fare pittura è allora mezzo di comunicazione, di scoperta, congiuntamente di introspezione e di apertura al mondo; è scansione dell’intimo che si rovescia e si sostanzia nella relazione umana, nella comprensione e partecipazione degli stati d’animo, delle esperienze materiali e spirituali. Come si vede quindi, questi paesaggi e scenari non sono solo un personale adattamento del dato reale ed oggettivo, quale l’immaginario di un artista riesce a ricavare dalle sue percezioni; ma nel prendere alla realtà spunti di elaborazione, Profaizer stabilisce mantiene e sviluppa un rapporto stretto, ombelicale, fra la perentorietà del mondo concreto e la complessità di quello interiore, in un richiamo che è insieme simbolico ed effettivo, storia di percorso artistico e di umana ricerca che si supportano e si intensificano l’uno nel dipanarsi dell’altra. Ed è questa connessione, questa interdipendenza che conferisce alle tele quello spasmo sospeso e incantato, quel sottofondo persistente di distillazione dal reale che all’inizio si è definito come fascinazione. Il gioco delle luci e delle forme crea atmosfere di “non luogo” e “non tempo”, librate fra impressioni della memoria e proiezione immaginifica dell’esistenza e del futuro. La luce lunare e corporea delle monocromie, deformante e rifratta negli ingigantimenti quasi lenticolari, in altre opere si ammorbidisce di viraggi e velature, riprende forza infine nelle fantasmogorie accese o nelle sue amplificazioni sullo sfondo, si comprime acuta in un fascio di illuminazione e predilezione nel cadere obliqua su un particolare. Sono come passaggi successivi di analisi, calibratura e precisazione, ulteriore indagine e depurazione delle forme rappresentate, dei significati espressi. Finalmente, la pittura di Profaizer, la sua sognante e delicata visionarietà, è di quelle per le quali corre facile lasciarsi andare, fisicamente aggirarsi tra figure e colore, farsi tutto occhio. Perché si percepisce un retroscena di lucida commozione, un disteso fluire di energia lirica che avvolge e rende partecipi, che trasporta e infrange i confini di ogni individualistica coerenza. È come lasciarsi condurre a cercare gli elementi qualificanti della realtà attraverso un’illusione ed una visione, una personale distorsione, un filtro di colori e sensazioni che di quegli elementi sappia svelarne l’essenza.
Profaizer è un artista dal carattere meditativo. Ha atteso pazientemente prima di uscire allo scoperto. Ora lo fa con un bagaglio che dice della sua maturità e presentando una raccolta di opere il cui tema principale è il mare. Egli considera l’aspirazione al mare come una fantasia romantica, memore di Heine e di Hoelderin ma anche di Foscolo. Nel mare, come dice lui stesso, coglie il senso dell’infinito, di un qualcosa che ci sovrasta, seducente ma al tempo stesso drammatico. E’ la simbologia del viaggio verso l’ignoto che lo attrae. Eppure Profaizer è solito appigliarsi alla solidità delle cose. Alla motilità (fisica come psicologica) del mare fa contrasto la pienezza delle case e delle barche in primo piano. Ma anche qui si tratta, probabilmente, di un contrasto dialettico di natura psichica. La romantica lontananza del mare si percepisce meglio proprio nell’opposizione all’ingombro materiale delle cose.
La luce nasce dall’ombra. Certi suoi paesaggi sono fatti di vibrazioni luministiche che squarciano le tenebre. E’ qui che si annida il quoziente fantastico della pittura. Egli è rimasto attratto (lo confessa) dal gusto neo-quattrocentesco degli anni Venti: da Carrà più che da De Chirico. Quel suo inseguire la luce richiama una tensione classica. La barca è il veicolo dei sogni che lo trasporta al di là delle colonne d’Ercole; il mare è il guado che attrae e atterrisce. Talora le onde schiumano, si fanno tempesta; e par di captare il vento di bora che scompiglia il cespuglio sulla duna. I suoi paesaggi sono essenziali eppure densi di significato, vivono di una vita interiore propria. Come dice Kandinsky, un buon disegno è quello dove non si può cambiare nulla senza distruggere questa vita interiore.
Il tramite tecnico forse più consono a Profaizer è il carboncino o la fusaggine: cioè il bianconero trattato con una grana intrisa di luce. Si percepisce quasi il disgregarsi della forma che diventa aria, pulviscolo, vapore umido. C’è bisogno, per lui, di proiettare sulla superficie rigida un’impronta, magari un alone misterioso. Il dualismo fisicità-spiritualità trova la sua espressione nell’incontro tra la forza del carboncino ed il tenue e rassicurante colore rosato della carta.
Naturalmente ci sono anche opere a colore, con olio e pastelli. E’ questo il momento suo più colloquiale, laddove egli si apre ad un’orchestrazione più ricca, più suadente. Ma poi ritorna l’oscurità romantica, in cui egli si trova a suo agio, frugando meandri di una natura che si fa specchio della psiche. In fondo si tratta di stati d’animo, di sentimenti. Come dice Gombrich, il vero paesaggio è sempre un autoritratto. Il respiro di Profaizer è ampio e solenne, non affannoso e concitato. E lo sguardo è fisso ad una ricerca di armonie sentimentali, sul filo di una nostalgia struggente per una mitica classicità dell’immagine. Per questo serba quel fascino sottile che, via via, cresce e s’ingrossa, come certe nuvole scure che sormontano l’orizzonte dei mari. Là giunge l’onda di una commozione che dalla pittura filtra nei meandri più profondi della nostra sensibilità.
La Torre di Babele: una costruzione assurda protesa contro l’infinito, quasi come se un’entità materiale, concreta potesse sormontare la barriera fra immanenza e trascendenza, fra qui e altrove. Gli angeli se ne prendono gioco, tanto da raccogliere perplessi le frecce che gli uomini scagliano verso il cielo e ricambiarli con ingannevoli gocce di sangue, sufficienti per confonderli e fargli credere di avere davvero ferito gli dei. Naturalmente poi arriva la punizione, e delle più terribili: la confusione dei linguaggi, che impedisce da quel momento all’impresa di procedere e alle persone di capirsi.
Per questo, forse, la torre di Babele è il primo segno della lingua umana, cioè della lingua in cui fra referente, significato e significante c’è sempre un margine di differenza, di distanza e di arbitrio. La lingua abbandonata dal sacro.
Fra gli altri, Jacopo Tintoretto si è lasciato conquistare da questa leggenda e vi ha dedicato un grande dipinto: la torre appare come una costruzione a spirale, brulicante di attività, una specie di gigantesca escrescenza sulla superficie della terra, incommensurabile rispetto alla scala umana (per dirla con Bruno Zevi). Un’immagine che è diventata nel tempo una specie di prototipo del paesaggio manierista e contemporaneamente del paesaggio d’invenzione, del capriccio architettonico che tanta fortuna avrebbe avuto nel visionario Settecento dell’architetto Piranesi.
Recentemente Paolo Profaizer ha ripreso questo soggetto antico in un lavoro fra i più rilevanti del suo ultimo ciclo pittorico, incominciato più o meno due anni fa e intitolato significativamente Altri luoghi. La sua torre è una specie di costruzione metallica a forma di calotta, coronata da una specie di bunker provvisto di una lunga apertura rettangolare. Intorno all’edificio, impalcature esili e numerose si aggrappano ai suoi fianchi, come per assediarlo (la Bibbia dice che sette scale erano sospese una sull’altra ai fianchi della torre e ancora non potevano raggiungerne la sommità).
La luce quasi abbagliante, che arriva dal fondo del quadro, ritaglia un angolo di cielo oscuro e si riflette sulle costole che percorrono la sorprendente costruzione dalla base alla sommità; una costruzione molto hi tech, completamente attraversata da un raggio di luce che assomiglia a un laser e proviene dall’alto, dal cielo, per andare a irradiarsi sul profilo sottile di un albero senza foglie.
Beninteso, tutt’intorno non c’è nessuno, assolutamente nessuno. Profaizer fino a questo momento ha escluso la figura umana e le forme di vita più appariscenti e riconoscibili dalle sue composizioni, come se volesse riportare tutte le cose alla condizione della stabilità, della permanenza. L’architettura, infatti, è fra le rarissime espressioni umane che siano contemporaneamente forme di permanenza. E l’artista altoatesino in questi anni ha dipinto solo architetture, cioè paesaggi convertiti alla fissità.
Che tipo di architetture ? Cose piccole all’inizio, una misura che corrispondeva a quella minimale e quasi miniaturistica dei dipinti; piccole e semplici, quasi primitive, come può esserlo una cabina sulla spiaggia o una fabbrica quasi cubica, oppure la “casa” come la disegnano i bambini, con il tetto triangolare, la porta rettangolare su un muro quadrato e un po’ di prospettiva.
A dire il vero, nelle composizioni si indovinava già sempre qualche dettaglio incongruo o meglio inquietante: per esempio in una serie di tre opere del 2002, l’edificio è composto semplicemente da una vuota, alta facciata (rettangolo + triangolo: schematica, quasi infantile) ma la porta d’ingresso è davvero minuscola, straordinariamente piccola nell’ottusa levigatezza della superficie continua, senza nemmeno una finestra. Allora non è più tanto infantile tutto questo, e non sembra nemmeno ispirato in particolare alle “fonti” che Profaizer dichiara come proprie legittime, il Carrà anni Venti (quello del ritorno all’ordine per intenderci, e delle marine) e il suo compagno Sironi. Vero è che le sue sono tutte forme elementari, minimali della costruzione umana, ma queste aperture sono davvero un po’ troppo minuscole per non dare adito almeno a un sospetto che si tratti di qualcosa di personale, di metaforico. Io però non voglio proporre una lettura psicologica o psicologistica del lavoro di Profaizer; mi limito a osservare che nel suo lavoro semplicità o elementarità della forma si accompagnano con una certa pesantezza dell’elemento architettonico, del senso di isolamento, della ricorrente chiusura delle costruzioni verso l’esterno e dell’atmosfera greve, anzi desolata. L’artista ha ridotto ai minimi termini i suoi strumenti operativi, concentrando tutto in pochi centimetri quadrati di superficie pittorica, per rendere più acuto il contrasto fra gli elementi e più pregnante il “messaggio”. Perché c’è, c’è sempre un messaggio in queste opere, o meglio un intenzione morale, quasi da parabola evangelica, determinata dalla riflessione sulla pittura ma anche dalla profonda spiritualità che anima Paolo Profaizer sin dall’infanzia. Si tratta, in altre parole, del rapporto fra spazio e luce, fra pieno e vuoto, fra condanna e redenzione.
È la luce infatti, una luce direzionata, drammatica, quasi teatrale, oppure diffusa e soffice come cotone che sembra irradiarsi dagli stessi edifici, dal corpo solido delle cose, l’unico elemento che può riscattare queste composizioni dall’essere soltanto quello che appaiono, rimanere definitivamente così. La luce è la forza dinamica, metafora di salvezza escatologica e principio dinamico, di trasformazione, di evoluzione. Niente di naturalistico, insomma, niente di prevedibile; ma ogni volta un “fiat” che è ricreazione, reinvenzione del rapporto fra la staticità bruta della materia e la leggerezza sublime dell’irradiazione, che è condizione insieme fisica e simbolica. È questo contrasto che conferisce più di ogni altra cosa alla prima serie di lavori di Paolo Profaizer (2002) caratteristiche e qualità uniche.
Le cose poi progressivamente si complicano: al timbro sordido e baluginante della luce dei primi lavori, che, scherzando, potrei interpretare come notturni senza luna in mezzo a un impianto siderurgico, subentra una luminosità più diffusa, variata e diurna; la monocromia di un tempo lascia il campo a una certa diversità di toni, quasi al piacere del colore; e la semplicità della forma si evolve verso una solerte articolazione, quasi una drammaturgia (Paolo Profaizer non nasconde il suo interesse per la scenografia) che va di pari passo con lo sviluppo di contenuti simbolici e l’aumento progressivo delle dimensioni dei dipinti: 35×35, poi 70×70, poi 100×100, poi (ultimamente) 150×150 e ancora oltre.
in altre parole: se una volta erano sussurri adesso sono grida. Il piccolo, sofisticato discorso di mezzi toni, questo sensibile diario segreto di sensibilità crepuscolari, senza affatto parole, si è trasformato in un insieme di statements molto decisi e determinati, dichiarazioni importanti fatte a voce alta.
Intanto però l’architettura ha cambiato aspetto, assumendo connotazioni tipiche del decostruttivismo contemporaneo, in particolare dei lavori più coraggiosi di Frank O’Gehry. Nei dipinti ultimi, come per esempio Ascensione, oppure La città addormentata pieghe e slabbrature, incavi ed emergenze improvvise, corpi e volumi degli edifici sembrano davvero tratti di peso dalle immagini più ardite del Guggenheim di Bilbao o altri progetti del celebre architetto americano. Ne ritrovo non citazioni letterali, particolari veramente riconoscibili, ma l’irripetibile atmosfera, la speciale e futuribile presenza, da astronave o macchina tecnologica, dalla plasticità e spettacolarità senza precedenti, corpo impenetrabile, spazio tanto chiuso quanto fluido e continuo. Insomma gigantesche sculture, o giganteschi scenari perfetti per un film di fantascienza, ma quel tipo di fantascienza che è già il nostro mondo.
Profaizer quindi, come Gehry, gioca sulle pause, sull’interruzione del discorso formale, sul random: le sue immagini sembrano ricavate da un assemblage di elementi plastici continuamente variati, con fantasia e anche, in un certo senso, insistenza. C’è un quadro del 2002 che è già presago di tutto questo: al lato di un alto edificio senza aperture, si delinea un volume spiraliforme, contenuto solo in parte nello spazio del dipinto, una specie di cilindro che si arrotola su se stesso e che non può non suggerire, seppure con le sue licenze poetiche, il primo Guggenheim, quello di Frank Lloyd Wright. Come se Profaizer stesse ripercorrendo a lunghe tappe il cammino dell’architettura contemporanea, attraverso il minimalismo degli anni Venti verso una contemporaneità infinitamente più complessa e caotica. Nel 2003 dipinge già molti edifici sorprendenti in questo senso, per esempio il grande dittico dedicato, se così posso dire, all’idea della torre, ma torre dalle convessità quasi organiche, scanalate come una colonna greca oppure aperte completamente su un fianco, a rivelare una specie di legaccio o di scala interna, un piano inclinato che ne percorre tutta l’altezza.
Sono edifici avventurosi che potrebbero interessare per esempio a un Toyo Ito, e di fronte ai quali molto a proposito l’artista parla addirittura di erotismo, di dimensione fallica, e fallica non solo nella verticalità esasperata, che occupa quasi tutto lo spazio del dipinto, ma anche in una certa morbidezza e organicità delle linee. Niente più che un sottile riferimento, d’accordo; una sensazione che potrebbe passare abbastanza inosservata, e che però viene ripresa e sviluppata in lavori più recenti, come Rinascita, dove compare di nuovo una torre aperta, oppure il singolare Tempio dell’amore che sarebbe piaciuto ai surrealisti per la presenza di elementi fallici e però la piega contraddittoria ma invitante, decisamente femminile o addirittura vulvare, che completa l’insieme come una specie di ingresso, una minuscola e segreta zona d’ombra. Questa segretezza che contrasta con la magniloquenza dell’insieme è un aspetto centrale del lavoro di Paolo Profaizer: l’artista sembra invitare continuamente lo spettatore a prestare attenzione, a non fidarsi delle apparenze, a non accontentarsi della superficie eclatante delle cose, perché il “tesoro” è nascosto, il valore vero sta nel piccolo, nelle azioni apparentemente insignificanti di tutti i giorni, rivelatrici del nostro intimo.
Quasi una parabola spirituale, come Profaizer conferma nei suoi scritti che insistono sull’aspetto simbolico e spirituale del lavoro. Cito dei passi fra i tanti: “…una metafora delle possibilità dell’uomo di guardare oltre la superficie delle cose, di cercare la verità coi propri occhi interiori… interpretazione della metropoli contemporanea, luogo di contrasti e di contraddizione fra l’immensamente grande e l’infinitamente piccolo, fra potenza (onnipotenza) e debolezza, freddezza e calore umano”. Inutile precisare che l’artista identifica evidentemente col piccolo l’aspetto umano e, non a caso, in mezzo a palazzi eccentrici e strapotenti, colloca con sintomatica frequenza un piccolo albero, un elemento minimo, talvolta appena visibile. L’albero, ci dice, presenta diversi livelli di lettura: “il primo è legato all’idea classica del paesaggio e quindi contribuisce a rendere riconoscibile un certo soggetto, a definirne le proporzioni e a bilanciare le forme chiuse o regolari con elementi aperti, di rottura. Il secondo è di natura poetica ed evoca un senso di malinconia, introspezione, delicatezza, fragilità. Il terzo, infine, è basato sui molteplici significati simbolici che questo elemento ha per tradizione: intermediario fra terra e cielo, tra passato e futuro, morte e rinascita, profondità e soavità dell’anima”. Insomma, qualcosa di molto intimo e prezioso, in cui l’artista, se così posso dire, pone la vita in quel che di meglio e di più profondamente umano (divino+umano) si possa sentirne. Ma io voglio insistere ancora sull’aspetto particolare di questo albero, che ricorre sempre uguale da un dipinto all’altro: si tratta infatti di una creatura esile, invernale, appuntita e fragile, il significante stesso della solitudine, e un significante che conferma il silenzio annidato dappertutto in queste opere.
Anche l’albero, in altre parole, è riportato a una condizione di permanenza, è spoglio, senza foglie, senza processi vitali eppure è tutto ciò che resta della vita. Insomma dove siamo ? Provo a ipotizzare tre scenari: la pittura di Paolo Profaizer ci riporta contemporaneamente nel passato, cioè il tempo delle ascendenze culturali, dei pittori e dei motivi, dei valori e dei piaceri; nel presente continuo della mente dell’artista, nel suo tempo di invenzione progressiva e conseguente, ma anche di scoperta, di affondo in sé stessa; e il futuro di un immaginario paesaggio post atomico, possibile immagine della terra rimasta dopo la scomparsa delle forme più consuete di vita attuale, compreso, forse, l’uomo. Profaizer: “ne è nata una figurazione dove il bisogno di immedesimazione con la realtà si è fuso con la necessità di dare vita ai sogni e alle aspirazioni, di creare uno spazio interiore dove ritrovarsi”. E ancora: “forse questo mio bisogno di essere moderno senza sacrificare la poesia e il romanticismo dell’esistenza, riflette la condizione e le aspirazioni dell’uomo d’oggi, stretto fra la morsa di un tecnicismo sempre più esasperato e il desiderio di riappropriarsi della propria fragilità e sensibilità, che sono le uniche cose che lo possono salvare dall’inaridimento”.
Alla ricerca dello spiraglio, del pertugio che lo possa condurre all’universale, l’artista recupera Carrà e Giorgio de Chirico, Bosch e Max Ernst, insinuazioni protometafisiche ancora cariche del romanticismo visionario del mondo jugend: simboli estenuati eppure un rigore che, appunto, è già metafisico proprio nell’esigenza sovrana di stabilità, di chiarezza cristallina della forma, così come nel riferimento all’irrecuperabile, all’ordine perduto di un mondo ideale, forse addirittura non mai esistito se non come teatro, rappresentazione. È su questa rappresentazione che Profaizer fonda il proprio rapporto col passato, un rapporto che rispecchia una modalità strettamente attuale, di investimento e distanza al tempo stesso: grazie a cui sono nati i suoi bellissimi e straniati paesaggi, molto personali nella monumentalità, nell’intimo rigore e nella malinconia sfuggente, che ne fanno una versione convincente e ambiziosa dello, per dirla con Wenders, “stato delle cose” e dello “stato dell’arte”.
Più che visionario – e visionario lo è certamente – Paolo Profaizer è un sensitivo: un pittore, e ora anche scultore, che avverte, ascolta ed esplora, in modo del tutto originale e particolarmente intenso, la propria interiorità, cioè quello che è accaduto e accade nel suo profondo, tutto ciò che inconscio e subconscio, esperienza e percezione hanno elaborato ed elaborano e che, lentamente, conquista spazio e prende forma, colore, forza, luce nella pagina psichica, diventando traduzione visiva, e in qualche modo tattile, ma anche musicale, degli impulsi intimi, dello ‘scoccare’ e del ‘montare’ di sensazioni, di ricordi recenti e lontani, anche dal grembo materno, di memorie sedimentate nell’anima individuale e nell’anima collettiva, le quali, magicamente, finiscono per coincidere, in un’espansione spazio/temporale tutta poetica, lirica, senza limiti, e, direi, di indubbia atmosfera onirica e fiabesca, assorbente e avvolgente. Le dimensioni delle opere (spesso quasi due metri di altezza) sono adeguate ad un processo di identificazione e di compenetrazione psico-fisica, di temperie romantica, così che l’opera richiama dentro l’autore (e l’osservatore) e al tempo stesso l’autore contempla dentro di sé l’opera come frutto, invenzione sintetica e sinestetica della propria esperienza, della memoria mnestica, sensitiva, fondata sulle apparizioni, sulle attese, sulle aspettative, sulle suggestioni e similitudini di visioni notturne e di sogni ad occhi aperti propri del nomadismo fantastico degli artisti. Affiorano umori, incantamenti, rapimenti del pensiero e dell’immaginazione, forme ambigue o, meglio, polisenso, ricche di contenuti simbolici, come cresciute e modellate da pneuma interno, scenografie dell’anima. Perché Profaizer, apparentemente così quieto, è come inghiottito in se stesso, tutto preso dall’ascolto delle voci di dentro, fortemente umorale, teso ad interpretare le misteriose evoluzioni dell’energia psichica, le conformazioni che essa assume come materializzazioni, leggere e trasparenti, costruttive ed organiche, concettuali e sensuali, dell’io profondo o degli alter ego lasciati emergere liberamente ad occupare tutto lo spazio possibile, lasciati crescere, dilatarsi modellarsi e modularsi secondo una percezione che è fantastica nella traduzione, ma certamente erotica all’origine, ricca di risentimenti e di impulsi vitalistici, germinali, testimoniati dagli impulsi luminosi che coronano (Pulsioni, Il teatro, Il faro ), invadono (La prigione dei sogni, Traslucenza ) o circondano le forme che, così, diventano metafore di un ritorno alle origini, agli archetipi ritrovati nell’invenzione ed impaginazione scenografica di un racconto emblematico, ora più organico (Rinascita), ora costruttivo (La casa sull’acqua), che riprende il tema già visitato delle case, delle dimore come rifugi, protezione e scrigni dei valori, dei segreti giacimenti dell’anima) o strutturale (Rivelazione), ora esplicitamente sensuale (l’iceberg di Inespressi abissi, Il Tempio dell’amore) , ma sempre aspirazione ed espressione di un dare corpo, ordine e misura, colore, luce a proiezioni psichiche lievitanti nel pozzo psichico. Sono significativi di questa condizione operativa di affabulazione intima e di atmosfera sempre più neometafisica di Paolo Profaizer i tempi lunghi e meditati, calibrati di esecuzione e realizzazione dei dipinti, e i grandi formati delle opere che provocano uno scarto percettivo rilevante tra la visione in fotografia e l’opera finita. Generalmente il gioco delle ambientazioni e delle proporzioni interne consente di immaginare, suggerisce la dimensione. Qui invece si resta spiazzati e si è colti subito da un sentimento di sorpresa e di maraviglia, anche perché nel suo primo catalogo monografico Profaizer ha riprodotto i lavori a piccolissime dimensioni, a poco più che francobolli su ampie pagine rettangolari, come per far meglio sentire, voltando il cannocchiale di esplorazione, che le opere corrispondono a momenti di illuminazione interiore, di sguardi intimi di intime sorprese che i dipinti intendono magnificare per meglio sentire e far sentire, vivere e rivivere, e comunicare commozione. I temi più frequentati della sua ricerca in questi anni recenti sono, infatti, soprattutto impulsi emotivi collegati a ricordi e a metamorfosi intime di memorie, di contatti, di contagi, accompagnati spesso da scintille, da lucciole o faville rutilanti nello spazio, sulle o dentro le forme sempre più leggere, sempre più trasparenti o trapassate da fasci di luce rivelatrice del rapporto di continuità tra interno ed esterno, tra materiale e spirituale, tra pieno e vuoto, nel senso quasi orientale del vuoto come purificazione del pieno, transito continuo di energia, flusso di pensiero ed emozione, movimento, trasformazione, metamorfosi, transmorfosi dei corpi che diventano (case, città, foreste, iceberg, reticoli, pareti, quinte) custodi e templi dell’evento conoscitivo, dell’illuminazione interiore che dà senso e sensi alla vita, all’esperienza quotidiana di disvelamento di sé. Per questo mi pare giusto definire la pittura di Paolo Profaizer un percorso, un itinerario conoscitivo, una disciplina operativa, pratica, estetica ed etica insieme, sul sentiero che porta a riconoscere valori esistenziali e spirituali autentici e duraturi, permanenti conquiste della visione personale e del pensiero creativo, fuori dalle turbolenze del tempo contingente, in una dimensione, appunto, metafisica, di liberazione dal peso della materia opaca e grezza, non levigata. Le grandi dimensioni, l’elemento luminoso, il colore saturo e vivo, le faville vaganti, la semplificazione o quell’essenzializzazione dei volumi (che lo porta ora a sperimentare la scultura) la tridimensionalità e l’installazione come più efficace coinvolgimento nella percezione dello spazio e nella partecipazione alla gestione di esso, sono gli strumenti tecnici e visivi di cui si avvale Profaizer per alleggerire il mondo interiore così da creare ‘luoghi’ non di rappresentazione o ripresentazione, ma di libera riscoperta, di ‘risensibilizzazione’ del passato. Scriveva Cesare Brandi: “La vitalità di una cultura non dipende da quello che inventa di nuovo, che spesso può cadere come il grano sulla pietra, ma da ciò che del passato riesce ad assimilare e a incentivare…tutta la cultura non è altro che ricerca di senso. Ora interrogarsi sul senso della vita, non è come interrogarsi sul senso di una parola: alla parola non siamo noi a conferire un significato, anche se fu l’uomo a riporcelo; sicché lo riceviamo insieme con la parola, anche se esso viene da così lontano che ad un certo punto l’etimologia più ardimentosa si arresta. Ma il senso della vita è qualcosa che ci precede da epoche immemorabili, radicato in un passato la cui alba è prima della storia: è come una porta chiusa di cui non si abbia la chiave. Per recuperarlo, questo senso oscuro, qualsiasi epoca è andata in cerca del suo passato, se l’è ricostruito, o se l’è scelto… ” (Cesare Brandi, Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi, Torino,1976). Lo sguardo di Profaizer si apre, tutto retrovisivo e nello spazio interno, ma per fare spazio alla precipitazione di futuro, dare vuoto all’infiammarsi di atmosfere fortemente percettive di energia costruttiva, rigenerante, ora algida e incombente e come in Costellazioni, ora usurata e sfasciata come la barca (Principium) che si fa lontana metafora del sesso, dell’origine e del viaggio esistenziale, della nascita senza più ritorno. Di qui la nostalgia del grembo (spazio protetto dell’ovulo germinale fluttuante) e della sospensione (Riflusso) come dilatarsi dell’attesa, conquista ed espandersi del tempo tra prima e dopo la nascita, tra ancora non essere e non essere ancora. E’ in questa dimensione spazio/temporale indecisa, di quiete indefinita, di equilibri indeterminati ma armoniosi, di bagliori di luce e di percezioni che Profaizer cerca di naufragare per riacciuffare il senso della vita come immersione, piena partecipazione panica, superando la cesura, la ferita che separa in modo irrevocabile la memoria mnestica del passato e l’attesa del futuro nel presente.